Il giro del mondo in altri 365 giorni

2013 Forse è quando non ti aspetti nulla che le sorprese arrivano. A capodanno del 1967 nessuno prevedeva che a giugno una guerra avrebbe cambiato il Medio Oriente; a gennaio del 1989 avrebbero preso per matto chi avesse previsto la caduta del Muro di Berlino entro novembre; né alla fine del 2010 si sarebbe potuto prevedere che i moti tunisini avrebbero contagiato l’anno successivo l’intero mondo arabo.

  Eppure, a costo di essere smentiti, le tracce lasciate da un opaco 2012 non sembrano offrirci nulla di mirabile per il 2013: prepariamoci a vivere solo un anno di transizione nella geografia politica e nella diplomazia internazionali. Se le politiche non faranno dei quarantotto, se non ci saranno eventi che chiudono un’era per aprirne un’altra, sarà ancora a causa della crisi economica dell’Occidente. E’ un evento troppo profondo e magmatico per non avere effetti su tutto il resto.

   Nessun Paese può ancora prendere il posto degli Stati Uniti come potenza; nessuna regione può sostituirsi al potere, alla ricchezza, alla produttività del sistema euro-atlantico; nessun mercato raggiunge la vastità di quello dell’Europa comune. Eppure gli Stati Uniti sono in crisi, il sistema transatlantico appare obsoleto, la Ue è a un passo dal suo fallimento.

   Questo doppio ruolo d’insostituibilità e di modelli in crisi, rende il resto del mondo incerto. Faticano ad avere fiducia in noi: l’accordo sul fiscal cliff americano, raggiunto solo al Senato all’ultimo minuto del 2012, poco prima che al Campidoglio si stappassero le bottiglie di spumante californiano, è solo una ragione in più perché gli altri dubitino del buon funzionamento del modello politico, sociale ed economico occidentale.

  Un mondo senza una leadership con la forza e il
bagaglio di visioni sufficienti per convincere, è un mondo che avanza senza una
meta. Si limita a muoversi, non plasma gli avvenimenti ma si adatta alla loro
casualità. In altre parole: quando siamo preoccupati per i nostri stipendi e
per il futuro dei figli, quanto importa che la democrazia e il libero mercato facciano
passi avanti del mondo?

  La transizione delle Primavere arabe sarà
lunga e agitata, in Siria forse cadrà Bashar Assad ma la guerra civile entrerà
in una nuova fase, israeliani e palestinesi non faranno concessioni senza
essere minacciati da un’America o da un Quartetto determinati. In Cina la nuova
dirigenza userà il 2013 per prendere fiducia con il potere; l’inverno della
Russia di Putin durerà tutto l’anno e i Paesi emergenti sono preoccupati quanto
noi della crisi fiscale in Occidente.

  Barack Obama, un uomo indubbiamente
straordinario che tuttavia ha deciso di dare il meglio di se nel rimodellare
l’America e non il mondo, è il simbolo più evidente di questa transizione
globale. Una volta di più la rivista TIME lo ha eletto “Person of the Year”.
Non per aver portato la pace fra arabi e israeliani né per aver creato
relazioni perfette con la Cina, aver smantellato gli arsenali nucleari o aver
vinto guerre. No, la straordinarietà di Obama 2012 è di aver conquistato altri
quattro anni di presidenza, cogliendo più di Mitt Romney la mutazione
demografica degli Stati Uniti. Il 71% dei latinos, il 93 dei neri, il 73 degli
asiatici, il 60 degli americani sotto i 30 anni hanno votato per lui. Così la
maggioranza delle donne e delle donne diplomate.

  Come ricorda TIME, molte delle vecchie
istituzioni che rappresentavano il sogno americano, oggi sono in crisi: le
banche, il grande business, l’informazione, il Congresso. Obama è troppo
impegnato a cercare soluzioni a questo problema d’identità nazionale, per
trovare quelle degli altri.

  Di fronte a un impegno così enorme, è logico
che nell’intervista che accompagna il numero speciale quasi interamente su di
lui, ci sia solo una domanda su 12, la nona, dedicata alla politica estera. Gli
otto anni di amministrazione Obama saranno ricordati come quelli del ritiro dai
grandi impegni mondiali. O di una ragionata selezione di questi impegni. Fareed
Zakaria, sempre su TIME, la definisce “Limitazione strategica”, dandole
l’autorevolezza di una dottrina di politica estera: “In un tempo in cui i
vecchi ordini stanno cambiando e nuove forze stanno emergendo”, il presidente “ha
tenuto gli Stati Uniti impegnati e all’avanguardia di queste tendenze, ma ha
evitato le grandi dichiarazioni e gli interventi militari”.

  Insomma, una ritirata. Forse Obama ha capito
che prima di tornare a guidare gli altri, l’America deve aggiustare le sue
ferite. Non puoi cambiare il mondo se hai perso la capacità di riformare te
stesso; se non togli alle lobbies, versioni democratiche delle oligarchie
russe, il loro tremendo potere. Barack Obama entrerà nella Storia. Ma come i
primi presidenti-padri fondatori, come Abraham Lincoln, come il Delano
Roosevelt del New Deal: per aver cambiato gli Stati Uniti, non il mondo.  

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